Ministeri

Leggere la realtà con in mano il Vangelo

Mons. Alberto Torriani è nato a Bollate ed è stato ordinato presbitero nella nostra Diocesi nel 2000. Dallo scorso febbraio è Arcivescovo di Crotone-Santa Severina. Il mese scorso è tornato a Venegono per presiedere la Messa di istituzione dei ministeri. Un’occasione per ripercorrere il suo cammino vocazionale e per parlare della Chiesa di oggi e di domani.
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È ritornato per presiedere la Messa dell’istituzione dei ministeri nel seminario di Venegono, dove si è svolta anche la sua formazione e il suo discernimento verso l’ordinazione sacerdotale. Come si rinnova la sua vocazione oggi che è Vescovo? Com’è maturata?
Tornare in un luogo come questo vuol dire mettere mano alla mia stessa storia, e tornare col ricordo a molte vicende, a vari aneddoti legati a quella stagione della vita che ho trascorso qui dove ho fatto grandi riflessioni, ho imparato linguaggi di lettura della mia personalità e i linguaggi della fede, ho appreso i primi tratti più sistematici del volto di Dio e della Chiesa. Insomma: tornare qui è un grande esercizio di memoria. Significa anche sentire una nuova responsabilità, perché appunto torno da Vescovo, ricco dell’esperienza che sto facendo in Diocesi che dilata le dimensioni del cuore e dei pensieri. Il sacramento che ho ricevuto sottolinea il tema della paternità: è come essere a bordo di un mistero e provarne tutte le vertigini.

Ci può raccontare il momento in cui le è stata comunicata la nomina a Vescovo, i sentimenti e i pensieri che ha provato?
Non sapevo, per mia ignoranza, che quando uno diventa vescovo ha a che fare con la Nunziatura e quando ricevetti la telefonata pensavo fosse per tutt’altra cosa, pensavo fosse per il Collegio S. Carlo di cui ero rettore, anche perché era abbastanza frequente ricevere telefonate dal Nunzio, o da qualche autorità ecclesiale o civile.
Sono andato così a Roma, totalmente ignaro, appunto pensando fosse una questione legata alla scuola o al Giubileo della scuola.
Quando invece il Nunzio mi ha comunicato che il Papa voleva farmi Arcivescovo ho pianto, come ho fatto anche in altre occasioni. Ho pianto perché mi stavo accorgendo che mi stava succedendo qualcosa di grande e di straordinario. Sono nate in me domande e mi sono chiesto: «Ma se dico di no?». Mi sono domandato se dire “no” avesse voluto dire essere infedele alla mia vocazione, e se dopo il “no” al Papa sarei stato comunque felice nella mia vocazione. Non sapevo quanto sarei riuscito a continuare a fare il sacerdote dopo il “no”. Cosa posso raccontare del Vangelo, della fedeltà di Dio, se sono io il primo che non la sperimento e non mi fido?
Il mio “sì” è nato appunto da questa certezza e da tutte le domande nate in me in quel momento. Questa sintesi veloce che ho fatto della mia vita, cioè di non essere all’altezza della vocazione che stavo vivendo in questi venticinque anni. Per me funziona così: ogni venticinque anni succede qualcosa nella mia vita ed è talmente grande che anche la Chiesa festeggia. Nel Giubileo del 2000 sono diventato prete e in questo Giubileo 2025 son diventato Vescovo. Non so cosa mi capiterà tra venticinque anni!

Come vive oggi il rapporto con i giovani nella sua Diocesi di Crotone?
I giovani che ci sono, sono quelli delle scuole, perché non essendoci strutture come qua da noi, come ad esempio l’oratorio, devo anzitutto cercare occasioni per stare con loro. Spesso li invito in Episcopio a mangiare la pizza. Cerco ogni occasione opportuna per stare con loro, per ascoltarli e soprattutto per dare a loro la parola.
L’esperienza che ho fatto in questi venticinque anni di Pastorale giovanile è che siamo sempre noi adulti a parlare dei giovani, ma spesso ci dimentichiamo di dare spazio ai giovani.

Come vive ora la distanza e il rapporto con la Diocesi di Milano?
È un rapporto che vivo con affetto e con un grande sentimento di appartenenza. È come un albero ben piantato che ha radici ben solide.
Le radici sono la Diocesi, sono le persone che nel mio servizio pastorale ho incontrato, mi hanno fatto compagnia, mi hanno fatto crescere umanamente.
Le radici sono anche quelle persone che mi hanno fatto crescere nella fede. Vivo il rapporto con la Diocesi in quei luoghi e con quei compagni che mi hanno accompagnato in questi venticinque anni. Prima in parrocchia, poi con i preti che ho conosciuto, le famiglie, i giovani, gli ex alunni che magari mi cercano per chiedermi di sposarli. Questi sono anche legami che rimangono, che tengono nonostante la distanza.

Guardando la Chiesa in cammino nel nostro tempo, immaginando la Chiesa dei prossimi anni, cosa vede come fondamentale?
Innanzitutto bisogna intendersi su quale Chiesa, perché un conto è la Chiesa universale, un conto le Chiese locali come, ad esempio, la Chiesa di Milano.
La Chiesa è fatta di storie, di geografie: la Chiesa che servo oggi non è come la Chiesa di Milano, questo è un primo aspetto. Un secondo aspetto è quello che io chiamo desiderio. Io desidero una Chiesa che sia sempre più capace di interpretare il momento storico con delle categorie adeguate a questa interpretazione. Faccio un esempio: le chiese sono vuote, si dice, e allora non c’è più la fede… Io non ci credo molto. Piuttosto domandiamoci perché sono vuote e che cosa abbiamo fatto o non fatto in questo tempo. È il grande compito della Chiesa di oggi e di domani: leggere la realtà, soprattutto con in mano il Vangelo.

Tratto dal numero 12 (Dicembre 2025) di “Fiaccola”